Studio Buccia, a cura di Mattia Cucurullo
Calpestata, dimenticata, sepolta nell’indifferenza, attira l’attenzione di un’artista. “Mi sento buccia”, afferma. Cosa significa somigliare ad una buccia di banana? Attraverso questa domanda si articolano e si sviluppano tutte le polimorfe soluzioni estetiche e concettuali che conferiscono una nuova vita a questa scorza organica. “Banana peel concept”, filosofia dello Studio Buccia, nasce da un’elaborazione personale di Sara Zanin, formulata attraverso l’incontro (quasi) causale con una buccia di banana, eletta a proprio alter ego. Un evento sui generis, dall’afflato iniziatico, che si inserisce a monte delle sue passate ricerche artistiche sul rapporto ambivalente fra corpo e cibo. La buccia, nel suo inconscio ottico, materializza la complessità di questa dimensione conflittuale. Nel corso della propria esistenza, si può rifiutare il nutrimento (lo si scarta), anche se si tratta solo della sua parvenza esteriore, o ci si può indentificare con esso, attratti dall’antropomorfismo di questo resto che richiama una figura sdraiata e forse discinta. Nella sua processualità, infatti, essa riunisce il degrado della decomposizione alla vitalità della nudità, atto sempre in fieri. Una strana sintonia, gravida di implicazioni, si instaura grazie a questo rispecchiamento difforme, che (ri)vela le tortuosità dell’io e dell’altro, in un gioco ironico e viscerale al contempo. “Non c’è niente di più profondo della pelle” afferma Paul Valéry. La buccia è l’estremizzazione di questo principio, una pelle che ha assolutizzato la propria superficialità.
All’interno del “salotto trasteverino” dello studio – come lo definisce Zanin – lo spazio espositivo trasforma questo motivo in qualcosa di estremamente duttile e cangiante, che si moltiplica e trasmigra da un medium ad un altro. Nelle opere esposte autoritratti pseudo-figurativi mostrano tale soggetto nel codice di una rappresentazione figurativa, nella sostanza organica di installazioni scultoree, nella produzione di altre creazioni che a loro volta riscoprono (dis)somiglianze con la consistenza della buccia in oggetti sospesi o adagiati, morbidi come la carne o algidi come il metallo. In questa moltitudine immaginifica di echi e rimandi la sua forma disfatta ha oramai abbandonato la silhouette equivoca della banana, ridotta allo statuto di mero fantasma, proponendo una sorta di rovescio carnevalesco dell’immagine dell’ego maschile. Come? Scolpendo, dipingendo, fotografando la sua “scorza”, e dimenticando la “sostanza” del frutto fallico, anzi gettandola via al suo posto. Come le perfomance sessuali più “prestanti” i delitti “perfetti” non lasciano traccia. Qui il residuo della buccia si presenta come un contraccettivo o una macchia di sangue, elementi che introducono una temporalità eterogenea, che rimanda ad una molteplicità di esperienze sensibili e sensoriali. Come la documentazione delle azioni dei performer, le testimonianze (grafiche, fotografiche, verbali) disarticolano la linearità di un discorso monologico, sfaccettando i piani del reale nell’intersezione con quelli dell’esperienziale.
Sorta di veste svestita, nella buccia la polarità interno-esterno risulta interscambiabile, così come l’identità maschile-femminile. L’erotismo della buccia evoca in questo movimento le fantasie incarnate delle pulsioni animali così come le immagini sospese del desiderio. All’interno del suo continuo (de)formarsi la scorza organica accoglie nuove figurazioni e determinazioni semantiche, come quelle di una chioma bionda e di una vagina. Il richiamo ad una dimensione femminile primordiale racconta la storia ancestrale di un principio fedele alla vita, capace di rigenerarsi, esposto a continue metamorfosi. La forza della sopravvivenza è anche quella della buccia, che nella sua apparente passività dischiude un universo di possibilità. La buccia è una metafora del piacere, ma anche un oggetto relazionale, come un divano o un letto, qualcosa che predispone un incontro e favorisce lo scambio umano. Tutti possono sentirsi buccia, tutti possono – come Zanin – iniziare somigliare ad essa, così come una conversazione è solo il punto di partenza di qualcosa di imprevisto, che si sviluppa sempre attraverso una pluralità di prospettive. L’opera di Raffaele Marino, in questo senso, dialoga con l’identità del progetto introducendo con la propria ricerca fotografica un ulteriore forma di approfondimento del motivo, esplorando l’intrinseca dimensione relazionale del mezzo, amplificando il potenziale sociale della scorza organica. Lo spazio aperto dello Studio Buccia è una grande buccia, una meta-buccia che si pone come un luogo ospitale e dinamico, capace di incentivare il confronto, mettendo in campo la soggettività di idee e persone, al fine di generare sinergie creative e liberatorie.